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Il plain language, in Italia, sembra quasi una novità: scrivere chiaro sembra solo una delle ultime tendenze, un capriccio da lasciare agli intellettuali. Eppure, le raccomandazioni per un uso più semplice e accessibile della lingua italiana hanno ormai una lunga storia. Scegliere e progettare bene le parole che usiamo ha un impatto sulla vita di ogni persona, in termini di praticità, fiducia, democrazia, tempo e denaro. Da quest’anno esiste anche uno standard ufficiale sul linguaggio chiaro che offre principi ed esempi per orientarsi.
Il plain language è un approccio alla progettazione e alla scrittura dei testi. È un metodo per creare testi chiari, utili, precisi, facilmente accessibili. Qualcuno lo ha definito “scrittura minimalista”, qualcun altro “comunicazione sobria”.
Il linguaggio chiaro si applica ai messaggi scritti, o agli script per produrre audio e video. Non si applica alle comunicazioni orali spontanee.
Il linguaggio chiaro non va confuso con il linguaggio facile, un approccio studiato per le persone che hanno difficoltà di lettura e comprensione: come vedremo, il linguaggio chiaro serve nelle comunicazioni verso un pubblico ampio.
Studiato e praticato da decenni, il plain language da quest’anno è anche oggetto di uno standard internazionale, ISO 24495, che definisce principi e linee guida. Lo standard è stato redatto inizialmente in inglese, poi tradotto e localizzato con esempi d’uso pertinenti in italiano.
La norma stabilisce 4 principi guida per chi progetta e produce testi:
1. La rilevanza, o pertinenza. Significa che chi riceve il testo troverà le informazioni di cui ha bisogno: tutte le informazioni rilevanti, solo le informazioni rilevanti.
2. La reperibilità. Significa che chi riceve il testo riuscirà a trovare facilmente le informazioni di cui ha bisogno. Per rispettare questo principio occorre lavorare molto sulla progettazione prima di scrivere.
3. La comprensibilità. Significa che chi riceve il testo riuscirà a comprendere senza sforzo il contenuto. Si lavora qui sulla massima comprensibilità possibile, poiché nessun testo può essere comprensibile in assoluto.
4. L’usabilità. Significa che chi riceve il testo riuscirà facilmente a usare le informazioni fornite per raggiungere i suoi obiettivi.
Il linguaggio chiaro è un approccio che dovrebbe riguardare tutte le comunicazioni funzionali fra le persone, ossia le comunicazioni che hanno finalità pratiche. Si dimostra particolarmente importante e utile in questi ambiti:
Immaginiamo un testo qualsiasi con cui abbiamo avuto difficoltà in passato. Sicuramente quel testo si sarebbe potuto scrivere in un linguaggio più chiaro, più usabile, e questo senza perdere precisione o autorevolezza. E-mail, messaggi automatici, pagine web, contratti, guide, manuali, articoli, moduli da compilare, ma anche audiodescrizioni, podcast e video. Le linee guida qui sopra fanno bene a tutti i testi, dai più brevi ai più lunghi.
Il linguaggio chiaro non serve (solo) per chi ha difficoltà di comprensione. Il linguaggio chiaro è una forma di comunicazione democratica utile a chiunque, perché chiunque può sperimentare difficoltà diverse in diversi momenti e situazioni. Chi non ha mai fatto fatica a capire il foglietto illustrativo di un farmaco o le istruzioni d’uso di un elettrodomestico? Chi non ha mai cercato informazioni su un argomento nuovo, scontrandosi con contenuti difficili da capire? Chi non ha mai fatto i conti con messaggi in cui mancavano parti fondamentali di informazioni?
Il linguaggio chiaro serve a tutte le persone che, in uno specifico momento, hanno basse competenze o conoscenze su un argomento, leggono in una lingua per loro straniera, non hanno tempo, sono distratte, o magari sono in un contesto disagevole, ad esempio un luogo molto rumoroso o affollato. Chiunque di noi ha sperimentato almeno una di queste situazioni nella vita.
Nella cultura italiana, il linguaggio chiaro incontra resistenze che sono il risultato di abitudini e falsi miti consolidati per generazioni. Per molte persone è difficile prendere consapevolezza dei costi nascosti di una comunicazione complessa, e dunque vedere i vantaggi di una scrittura chiara.
In Italia, il problema della comunicazione istituzionale e professionale esiste da secoli: Manzoni, nel romanzo I promessi sposi, disegna il personaggio dell’Azzecca-garbugli, avvocato ambiguo e vigliacco, che lascia il povero Renzo nella confusione e nella sfiducia verso chi dovrebbe difenderlo da un’ingiustizia.
Nonostante le proteste anche illustri (il famoso testo di Italo Calvino sull’Antilingua è del 1965), nonostante i tanti studi universitari e le raccomandazioni autorevoli, spesso pensiamo ancora che scrivere difficile sia un modo per mostrare competenza e autorevolezza. Purtroppo, in questo modo creiamo solo frustrazione in chi legge.
Questo atteggiamento genera nell’utenza il sospetto di essere manipolata, imbrogliata, svantaggiata. Sospetto a volte fondato, dato che queste modalità comunicative, esasperate, sono tipiche anche dei paesi in cui il livello di democrazia è basso o inesistente.
In altre lingue e culture, il plain language è la normalità. In molti Paesi dell’Europa occidentale, sin dagli anni ’90 esistono enti per la promozione del linguaggio chiaro. I siti web delle istituzioni del Regno Unito sono esempi molto studiati e noti per la loro facilità d’uso e chiarezza. In Svezia il linguaggio chiaro è richiesto per tutti i testi istituzionali: esiste un organismo incaricato di verificare la comprensibilità e l’usabilità di norme e comunicazioni prima della pubblicazione. In questi sistemi culturali, le persone hanno più fiducia nelle istituzioni e nella professionalità degli esperti, possono accedere alle informazioni necessarie, sono più consapevoli dei propri diritti e doveri.
Non esistono lingue predisposte alla chiarezza e lingue destinate alla confusione e alla complessità: esistono abitudini e atteggiamenti che possiamo scegliere con responsabilità, in qualsiasi lingua.
Nel 1998, i traduttori in servizio presso le istituzioni europee iniziarono a promuovere il plain language in opposizione al cosiddetto “euroburocratese”: il linguaggio complicato, pomposo e inaccessibile che andava ancora di moda nei testi normativi dell’Unione europea. Il burocratese rendeva i testi difficili da tradurre, rallentava i processi, complicava l’integrazione. Da molti anni lo stile dei regolamenti e delle norme è migliorato grazie a un lavoro attento e preciso di professionisti e professioniste di settori diversi.
Non è un caso che l’iniziativa sia partita dai traduttori, chiamati a “digerire” i testi per poterli rielaborare in un’altra lingua. Anche in tempi di automazione, ciò che non si capisce non si può tradurre. Se creiamo testi destinati alla traduzione, adottare un linguaggio chiaro è ancora più importante e vantaggioso: chi traduce avrà meno domande e dubbi, potrà fornire un lavoro di qualità superiore e con tempi e costi inferiori.
E proprio in tempi di automazione, seguire i principi del plain language permette di creare testi più facilmente processabili dai sistemi di traduzione automatica. Le traduzioni richiederanno meno interventi di correzione e revisione e si potranno organizzare, archiviare, aggiornare e gestire con più rapidità e meno impegno.
Oggi le persone sono sovraccariche di informazioni e distrazioni e hanno una soglia di concentrazione sempre più bassa: il linguaggio chiaro diventa quasi un obbligo per raggiungere l’attenzione di qualcuno.
Il linguaggio chiaro non va associato a una scrittura poco attenta: al contrario, scrivere semplice è difficile, richiede competenze e molto lavoro. Ci permette però di chiarire subito che relazione vogliamo stabilire con chi ci legge.
Per seguire i principi proposti dallo standard ISO è fondamentale immedesimarsi nelle categorie di persone che riceveranno il testo, chiedendosi: di che informazioni hanno realmente bisogno? Quali conoscenze hanno già, sul piano linguistico e dei contenuti? Cosa dovranno fare con questo testo? In che situazione leggeranno o ascolteranno queste parole?
Come fare allora?
“Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. […] La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi.”
Italo Calvino, L’antilingua, Il Giorno, 3 febbraio 1965
Leggi anche: Questioni di accessibilità: la barriera linguistica
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